Al Consiglio nazionale, poche settimane fa, sono state discusse le controverse iniziative “Per una Svizzera senza pesticidi sintetici” e “Per un’acqua potabile pulita”. Iniziative che vorrebbero, per farla breve, eliminare completamente la chimica dalle colture elvetiche. I contadini sono ben consci della necessità di ridurre il più possibile l’impiego di prodotti fitosanitari (PF) per le proprie colture e per questo seguono meticolosamente il Piano d’azione nazionale PF per la riduzione del rischio e perseguono un loro uso sostenibile. I contadini svizzeri sanno molto bene quali sono i rischi legati al loro utilizzo, così come ne conoscono altrettanto bene i benefici, poiché in certi casi i PF permettono di non dover gettare al macero il raccolto di un intero anno, ad esempio di fragole. Oppure evitare di non raccogliere nemmeno un grappolo d’uva. Rinunciare del tutto ai PF, così, di punto in bianco, sarebbe un po’ come se da domani decidessimo di non prendere mai più un antibiotico o una medicina, indipendentemente dalla malattia che ci colpisce. Un altro aspetto, determinante, e che spesso viene trascurato, è rappresentato dal fabbisogno e dalla resa. Senza l’impiego di tali prodotti, la resa di molte colture crollerebbe. La popolazione Svizzera, così come quella mondiale, non arresta la sua crescita e al contempo le persone che lavorano in agricoltura sono sempre meno. Fino a quando ciò sarà sostenibile? È vero, e sono il primo a dirlo, che si può e si deve fare di più ogni giorno e a tutti i livelli, e che è necessaria una nuova coscienza alimentare. Mi stupisce però vedere che l’unico modo per creare questa sensibilità, sembrerebbe essere quello di depositare iniziative che puntano il dito contro il primario svizzero. Un settore composto da persone che sanno perfettamente quanti e quali sforzi siano necessari per far rendere un campo o per far partorire una vacca e che conoscono il valore del cibo, del clima e delle risorse. L’8 luglio sono state depositate le firme per un’altra iniziativa che ci coinvolge da vicino: “No all’allevamento intensivo in Svizzera”. Questa volta l’attenzione si concentra sull’allevamento animale. Forse mi ripeto, ma credo proprio che oramai sia in atto un attacco frontale senza precedenti alle nostre famiglie contadine. Si vuole fare di più per il pianeta, per non sprecare le risorse, e la sensibilità verso certi temi è aumentata. Ma questa sensibilità, ve lo garantisco, i contadini già la possiedono e da un bel pezzo! La cosa che mi stupisce di queste iniziative è sempre la radicalità: basta questo, basta quello e da subito. Mi immagino le risate che si farebbero gli americani, gli australiani, i cinesi, ma anche i tedeschi o gli italiani, a sentir parlare di allevamento intensivo in Svizzera. Ma dove sarebbe tutto ciò? Basti dire che, per fare un paragone, in Germania ci sono aziende con 600’000 galline ovaiole, mentre da noi, il limite massimo è di 18’000, e ce ne sono poche così. In Svizzera “la dignità dell’animale nell’ambito della detenzione per scopi agricoli” è garantita dalla Costituzione e spesso le persone straniere che visitano le nostre stalle, oltre a rimanere a bocca aperta per le eccellenti condizioni di detenzione, spesso si guardano in giro e chiedono: «E gli altri animali? Dove sono?». Il che è tutto dire!

Sem Genini, segretario agricolo UCT

da Agricoltore Ticinese del 19 luglio 2019