Alle volte, ancora non del tutto desti, alle sette di mattina, si ascolta il radiogiornale e subito ci si sveglia di colpo e si inizia subito male la giornata. Mi è successo ancora una volta martedì scorso. “Nuovo grido d’allarme”, “Una specie su otto sarà estinta nei prossimi decenni”, “La Svizzera è messa peggio di tutti”. Titoloni ad effetto, per attirare l’attenzione. Ed è forse anche giusto che sia così, altrimenti chi ascolterebbe questi servizi? Si riferivano ad un recente studio internazionale sulla biodiversità e sugli animali in via d’estinzione pubblicato dall’ONU. Si parlava poi anche di cause e rimedi. In Svizzera le specie che rischiano di scomparire sembrerebbero essere di più rispetto a quelle del resto dell’Europa. Markus Fischer, un professore dell’Università di Berna, ne spiegava i motivi: territorio ridotto del nostro piccolo paese e sfruttamento intensivo del suo territorio con la presenza di zone densamente popolate. Niente da eccepire fino a qui. Poi però, per una scelta poco chiara della giornalista, e per me difficile da condividere, l’attenzione immediatamente si è concentrata sui sistemi di produzione agricola svizzeri. Così, di punto in bianco, chi è chiamato a rispondere della riduzione della biodiversità? Ebbene sì, ancora una volta, l’agricoltura svizzera, è giudicata erroneamente troppo “intensiva”. Jacques Bourgeois, direttore dell’Unione Svizzera dei Contadini, ha però risposto in maniera ragionevole e sensata, con cognizione di causa e non solo per fare sensazionalismo. Sono fiero che qualcuno che ci rappresenta egregiamente abbia potuto prendere la parola e abbia risposto, dichiarando che «sono sempre di più gli agricoltori svizzeri che passano al bio» e che «tutti sarebbero disposti a farlo, a patto che anche il mondo attorno fosse disposto ad accettare prezzi diversi e un mercato diverso». Bourgeois ha anche parlato di quanto importiamo in Svizzera e degli accordi commerciali con gli altri paesi, che non sono di certo scritti e poi definiti dagli agricoltori. L’agricoltura, chiamata in causa, si sta dando da fare. Ma tutti gli altri? Dove sono tutti gli altri? Chi sono? Io non ci penso nemmeno a voler identificare un solo responsabile. Ho letto il comunicato stampa dello studio ONU, che riassume oltre 1’800 pagine, che è stato condotto da più di 100 ricercatori in 30 diversi paesi e spiega che «I fattori indiretti determinanti sono l’aumento della popolazione e del consumo pro-capite; l’innovazione tecnologica, che in certi casi riduce il danno alla natura, in altri invece lo aggrava; problemi di governance e responsabilità». Ma anche «che non è troppo tardi per fare la differenza. Bisogna però iniziare a tutti i livelli, dal locale al globale. Attraverso un cambiamento trasformativo, cioè una riorganizzazione fondamentale a livello di sistema, fattori economici e sociali, paradigmi, obiettivi e valori, la natura può ancora essere conservata, ripristinata e usata in modo sostenibile». Ora è chiaro chi sono gli altri responsabili: siamo tutti noi! Ma non quali contadini o agricoltori, che già fanno tanto e che in maniera alquanto superficiale sono chiamati a rispondere anche per tutti gli altri, ma come singoli cittadini.

Sem Genini, segretario agricolo UCT

da Agricoltore Ticinese del 10 maggio 2019