Ho letto proprio ieri un articolo sul sito del LID, il servizio d’informazione agricola, che parlava di selvaggina, senza però parlare direttamente di caccia. Ma non è di caccia che voglio parlare, anche perché credo lo si sia già fatto abbastanza in queste settimane, culminate con una tragica fatalità che ha di certo toccato tutti da vicino. Vorrei parlare di un processo misterioso che si costruisce nelle nostre teste, perché ritengo che anche di quello parli l’articolo del LID. Ma smettiamola di girarci intorno: con l’arrivo dell’autunno il mercato della carne si trasforma radicalmente. La carne di “selvaggina” fresca, che nei primi mesi dell’anno è una voce quasi irrilevante, di colpo, in settembre, impenna.

Basta citare alcuni dati: nell’agosto del 2018 in Svizzera si sono venduti al dettaglio 4’000 chili di carne fresca di “selvatico” per poi passare ai 348’000 del mese di settembre. Un vero e proprio boom, nonostante si tratti solo del 3% dell’intero mercato della carne svizzera. I motivi sono abbastanza ovvi. È in questo mese che i cacciatori, in pos- sesso di regolare patente, catturano la maggior parte di capi nei boschi. È un collegamento naturale della nostra mente. Autunno, caccia, selvaggina. Un po’ come succede a Pasqua con gli agnelli e i capretti, penserà qualcuno. Anche i motivi storici e culturali sono innegabili. Ma credo che per quanto riguarda la “selvaggina” ci sia una piccola differenza. La maggior parte delle persone ormai, il cervo, il capriolo o il cinghiale, lo mangia nei ristoranti o nei grotti. E come dargli torto? Quando in carta si legge: sella di capriolo alla Baden Baden con contorni (castagne glassate, la classica pera o mela con dentro un cucchiaino di marmellata, il cavolo rosso, i broccoletti, magari gli spätzli fatti in casa). A volte basta il ricordo di un posto in cui si è stati bene e ci si torna per rivivere quell’esperienza, quella bella serata dell’anno precedente con gli amici, dove si è anche abbinato un bel merlot ticinese. Però, con la selvaggina in particolare, inizia a costruirsi un percorso mentale misterioso del «Lo so benissimo, ma faccio finta di non saperlo». E che cos’è che so benissimo? Che il capriolo, il cervo o il cinghiale che sto mangiando molto probabilmente non l’ha nemmeno mai visto un bosco e quasi di sicuro non un bosco svizzero. In effetti come riporta l’articolo del LID, quasi il 70% della carne di cacciagione consumata in Svizzera è di importazione e di allevamento. È vero che al ristorante la probabilità che sia locale aumenta un po’, ma resta pur sempre bassa. Va anche detto che, per fortuna, negli ultimi anni la percentuale di carne svizzera è aumentata! Nello studio non si fanno differenze regionali, cantonali, poiché vi assicuro che il Ticino e altri cantoni simili al nostro si distinguono in questa statistica, e diversi esercizi pubblici hanno nei loro menù della selvaggina nostrana. Ma non voglio soltanto dire quanto più bello sarebbe poter mangiare sempre locale e magari davvero selvatico (anche se poi non a tutti piace il suo tipico gusto!). Voglio piuttosto chiedervi, anche se so che è molto difficile trovare una risposta, quanto conta l’idea che si ha in testa? Il credere o il fare finta che quel selvatico nel nostro piatto sia stato catturato dopo una vita allo stato brado? Credere che sia un prodotto diverso, non allevato in un recinto? Quanto contribuisce tutto ciò a farci sentire in bocca un gusto diverso, più buono?

Sem Genini, segretario agricolo UCT

da Agricoltore Ticinese di venerdì 4 ottobre 2019