L’opinione / Sem Genini* (PDF della pagina intera)
Paradossi del Ticino moderno
Quando a Zurigo e Milano nascevano le prime industrie, il Ticino era un vicolo cieco. Lontano dall’industrializzazione, si scontrava con le Alpi che apparivano quasi invalicabili agli occhi dei comuni mortali. Era una catena di valli, di laghi e di montagne, dove i vagoni pieni di cibo e merci non arrivavano. I binari per la ferrovia erano stati posati solo sull’Europa piatta, mentre nell’impervio Ticino non lo erano ancora. Un incredibile lavoro d’ingegneria ferroviaria riuscì a mettere dei binari lungo tutta la Leventina, altresì un traforo delle Alpi e un ponte a Melide avvicinarono il Ticino al resto del mondo, o l’Europa all’Africa a seconda dei punti di vista. Improvvisamente il Ticino rurale fece parte del mondo dei commerci. Tuttavia, prima di diventare il Ticino delle banche, era ancora lo scosceso e impervio Ticino della fame. Ancora si praticavano i duri lavori dell’alpe, dei terrazzamenti e della fienagione ad alta quota. Ancora i nostri avi disboscavano, dissodavano i terreni e trasportavano, su e giù per le scarpate, la terra per gli orti per poter mangiare. Le famiglie ancora cadevano dai dirupi e la miseria delle nostre stupende valli, descritta alla perfezione da Plinio Martini, era vera. I mercoledì di ogni settimana, agenzie di emigrazione oltremare organizzavano carovane di persone in lacrime, in fuga dalla fame.
Con il tempo la maggior parte dei ticinesi poté abbandonare il duro lavoro della produzione agricola per concentrarsi su più comode attività in altri settori, come per esempio quello terziario. Spesso mantenendo comunque qualche animale e della vigna come passatempo produttivo e un reddito accessorio non indifferente. Da popolazione povera, quella ticinese, diventò relativamente in fretta più benestante e spesso anche estremamente imprenditoriale. I lavori più fisici venivano svolti principalmente da popolazioni straniere (costruzione della rete ferroviaria e stradale, opere di bonifica o anche la manodopera agricola). Nel frattempo, la produzione primaria è confrontata con diversi problemi, l’artigianato dimenticato e diverse piccole imprese inglobate da altre. Oggi esistono poche botteghe e tutti lavorano per qualcuno. Grandi aziende controllano interi mercati e stipendiano migliaia di lavoratori. Per essere più vicina alla ricchezza di queste aziende, la gente si è trasferita in città e gli insediamenti sono cresciuti a dismisura. Le valli sono state abbandonate e il bosco ha ricoperto il lavoro che i nostri antenati facevano.
È arrivata la crisi climatica, causata dall’incredibile stile di vita moderno, così diverso da quello dei nostri nonni o anche solo dei nostri genitori. Luci accese, automobili, telefonini, vacanze in Paesi lontani, vestiti e cibo da tutto il mondo, colonne in Leventina e altrove. Si sono riparate strade, salvate banche. Si è aiutato chi aveva bisogno e si è addirittura costruita una nuova galleria ferroviaria del San Gottardo, un miracolo dell’ingegneria che dovrebbe eliminare il traffico dall’autostrada, ma che per ora ha soltanto nascosto e sostituito l’altro incredibile lavoro di genio civile di 150 anni fa. Passi da gigante, ma paradossalmente, fra i tanti problemi del cantone, ancora si sente parlare di emigrazione ticinese (vedi studenti e neolaureati, pensionati o il pessimo servizio di Striscia la notizia). Nascondere e dimenticare non funziona. Serve un Ticino capace di valorizzare il suo territorio, la sua gente e la sua lingua.
* candidato della Lega al Consiglio nazionale
da Corriere del Ticino del 15 ottobre 2019